Dalla nascita alla morte del carcere

The idea to abolish prisons is as old as prisons themselves.

In the 19th century, voices like Thomas Buxton of the British Parliament and Victor Hugo of France condemned the prison system and retributive justice. In 1976 Gilbert Cantor, a former editor of the Philadelphia Bar magazine, wrote in that prestigious magazine::

"If our entire criminal justice apparentus were simply closed down...there would probably be a decrease in the amount of behaviour now labeled 'criminal'. The time has come to abolish the game of crime and punishment, and to substitute a paradigm of resitutition and responsibility. The goal is the civilization of our treatment of offenders."

"Se la nostra intera giustizia penale apparentus erano semplicemente chiuso ... ci sarebbe probabilmente una diminuzione della quantità di comportamento ormai classificati come 'criminali'. E 'giunto il momento di abolire il gioco del delitto e castigo, e di sostituire un paradigma di resitutition e responsabilità. l'obiettivo è la civiltà del nostro trattamento dei delinquenti ".

La nascita della prigione

La seconda metà del XVIII secolo segna la nascita di un vasto movimento di riforma della politica punitiva che coinvolge quasi contemporaneamente molti paesi europei e statunitensi. L'inadeguatezza delle rare prigioni esistenti e le atrocità dei castighi corporali ancora applicati ai condannati nel corso del settecento generarono un po' ovunque proteste e rivolte che dettero l'avvio ad una radicale trasformazione nella strategia della punizione. Si affermò l'esigenza di una pena più umana, di un castigo almeno apparentemente senza supplizio ed in grado di trasformare e correggere il colpevole. Dopo i primi, limitati esperimenti delle Case di correzione, in questi anni si diffuse una nuova forma di disciplina carceraria rivolta alla mente del recluso e destinata, nel tempo, a sostituire definitivamente le punizioni corporali.

La nuova tecnica punitiva rafforzò e perfezionò la funzione disciplinare attribuita alla religione nelle Case di internamento del XVI e XVII secolo. Il sentimento religioso fu considerato un elemento indispensabile dell'educazione penitenziaria, la massima garanzia per la restaurazione dell'ordine morale e sociale, sia all'interno che al di fuori delle prigioni. La religione doveva toccare, purificare, persuadere e santificare il cuore umano e contribuire al perfezionamento morale dell'umanità. Il penitenziario si propose infatti non solo finalità meramente punitive e di difesa sociale, ma soprattutto, ed in modo razionale e pianificato, l'emendamento ed il miglioramento spirituale dei prigionieri. Uno dei principali obiettivi che esso si prefisse fu "l'educazione delle passioni" (2), cioè il potere di governale, attraverso l'imposizione ai reclusi di abitudini di ordine, di regolarità, di lavoro e soprattutto di severe norme morali e religiose.

La seconda metà del XVIII secolo fu un periodo di grandi cambiamenti in ambito carcerario sia negli Stati Uniti che in Europa e la religione costituì il principale elemento ispiratore di queste riforme. Negli Stati Uniti il movimento che determinò la radicale trasformazione delle strutture carcerarie esistenti fu essenzialmente religioso. I quaccheri, messi in fuga dalle congregazioni inglesi vittoriose e rifugiati nel corso del seicento a Filadelfia, sperimentarono nel secolo successivo un modello carcerario diverso, il penitenziario, destinato non più ad affliggere il corpo, ma a curare l'anima. Fiduciosi nella religione come unico strumento pedagogico, imposero ai "peccatori" un solo infallibile carceriere: Dio.

Nel 1790, sotto l'influenza diretta dell'ambiente quacchero, fu quindi inaugurata a Filadelfia la prigione di Walnut Street dove furono internati in solitary confinement i condannati a pena detentiva. La nuova disciplina carceraria si fondò sull'isolamento cellulare continuo dei reclusi, sull'obbligo del silenzio, sulla meditazione e sulla preghiera. In realtà questa forma di esecuzione penitenziaria, che permetteva di ridurre drasticamente le spese di sorveglianza, non fu del tutto originale: la Maison de force istituita in Belgio e il modello del "Panopticon" di Bentham (3) in Inghilterra già preannunziavano l'introduzione del carcere cellulare.

Nell'organizzazione del carcere di tipo filadelfiano le formulazioni più estremistiche del pensiero protestante trovarono piena attuazione. Secondo i riformatori, il solitary confinement era in grado di risolvere ogni problema penitenziario; esso impediva la promiscuità fra i detenuti e permetteva, attraverso l'isolamento continuo, il silenzio e la preghiera, quel processo psicologico di introspezione che veniva ritenuto il veicolo più efficace per il ravvedimento. La religione costituì lo strumento privilegiato per educare alla soggezione e riformare i devianti. La pratica religiosa era considerata essenzialmente una pratica amministrativa e il cappellano era un "diligente ragioniere" (4) che doveva rendere conto all'Amministrazione.

Il "sistema filadelfiano" fu imitato da numerosi Stati americani ed europei; in America fu introdotto nel 1796 a Newgate nello Stato di New York, nel 1804 a Charleston nel Massachusetts e a Baltimora nel Maryland, e nel 1803 a Windsor nel Vermont (5).

Malgrado fosse considerato il sistema di imprigionamento più umano e civile, il tasso crescente dei suicidi e della pazzia tra gli internati, quale effetto diretto dell'isolamento continuo, generarono dubbi e perplessità circa l'efficacia e la capacità rieducativa del sistema. Fu comunque il mutamento nel mercato del lavoro, con un sensibile aumento della domanda ed un conseguente rialzo del livello salariale, che determinò la crisi definitiva dell'esperienza filadelfiana. (6) Il solitary confinement, infatti, non solo privava il mercato di forza lavoro, ma attraverso l'imposizione di un lavoro antieconomico, quale era il lavoro svolto dai detenuti all'interno delle singole celle, diseducava e privava gli internati delle loro originarie capacità lavorative.

Il primo razionale tentativo di pervenire ad un esecuzione penale capace di rimediare a questi inconvenienti fu fatto per la prima volta nel penitenziario di Auburn. Questo sistema carcerario, destinato a trovare applicazione nella maggior parte degli Stati americani, si fondò sul solitary confinement durante la notte e sul common work in silenzio durante il giorno. La sua particolarità fu quella di permettere l'introduzione nel penitenziario di un tipo di lavoro analogo a quello presente nella fabbrica e di potenziare conseguentemente le funzioni attribuite alla disciplina e all'educazione.

Come il sistema filadelfiano, anche quello di Auburn fu fondato sull'isolamento e sulla necessità di evitare ogni tipo di comunione e contatto fra i detenuti. La solitudine e la separazione tra gli internati, assicurate rispettivamente dalla struttura cellulare del carcere e dall'imposizione del silenzio e delle punizioni corporali, furono infatti ritenute condizioni fondamentali per la riforma morale del detenuto. "Gettato nella solitudine, il condannato riflette. Posto solo, in presenza del suo crimine, impara ad odiarlo, e se la sua anima non è ancora rovinata dal male, è nell'isolamento che il rimorso verrà ad assalirlo" (7).

L'isolamento dei detenuti garantiva infatti l'esercizio di un potere assoluto nei loro confronti, un potere che non poteva essere bilanciato da nessun'altra influenza; la solitudine era infatti la condizione prima della sottomissione totale. (8) Charles Lucas, riferendosi al ruolo del direttore, dell'istitutore, del cappellano e delle "persone caritatevoli" nei confronti dei reclusi utilizzò queste parole: "Ci si immagini la potenza della parola umana che interviene nella terribile disciplina del silenzio per parlare al cuore, all'anima, alla persona umana" (9). L'isolamento assicurava il colloquio del detenuto con il potere che si esercitava su di lui; con la solitudine e il silenzio si sottometteva, si annientava e si ricostruiva.

Ad Auburn la costrizione e la sottomissione del detenuto furono attuate attraverso la regola del silenzio che, garantita dalla sorveglianza e dalle punizioni, abituava il recluso "a considerare la legge come un precetto sacro, la cui infrazione genera un male giusto e legittimo" (10). L'isolamento notturno, le riunioni diurne senza comunicazione e la legge garantita da un controllo ininterrotto permettevano di riformare il criminale, di riqualificarlo come individuo sociale.

A Filadelfia la riforma e la sottomissione del detenuto furono invece più profonde ed affidate al lavoro stesso della coscienza del recluso: i muri diventavano la punizione del crimine e la cella, mettendo il detenuto in presenza di se stesso, lo obbligava ad ascoltare la sua coscienza.

La lutta contro il carcere

Protagonisti

I quaccheri canadesi

Für die Abschaffung der Gefängnisse setzen sich mehrere (häufig religiös inspirierte) abolitionistische Gruppen ein. So etwa die britische Gruppe Radical Alternatives to Prison (RAP; Zeitschrift: The Abolitionist). 1983 wurde die International Conference on Prison Abolition (ICOPA) gegründet, die 1987 das Wort Prison durch Penal ersetzte. Vor allem in Skandinavien entstanden in den 1970er Jahren Vereinigungen, die sich die Abschaffung des Gefängnisses zur Aufgabe stellten. So der dänische Verein für humane Kriminalpolitik (KRIM), die schwedische Vereinigung für Strafvollzugsreform (KRUM) und der norwegische Verein für Kriminalreform (KROM). Letzterer hatte nicht zuletzt aufgrund des Engagements von Thomas Mathiesen (1974) und Nils Christie auch Einfluss auf Deutschland wie z.B. auf die Gründung des Vereins für eine bessere Kriminalpolitik (IbK) und des kriminalpolitischen Arbeitskreises in der Arbeitsgemeinschaft sozialpolitischer Arbeitskreise (KRAK in der AG SPAK). Michel Foucault wiederum engagierte sich zu der Zeit in der Gruppe Gefängnisinformation (GIP; Groupe d'Information sur les Prisons). Während diese Initiativen wenig greifbare Erfolge vorweisen konnten, hat sich an der Peripherie der westlichen Welt, speziell in Neuseeland und Australien, aber auch in Kanada, eine Bewegung der Restorative Justice etabliert, die nicht mehr auf Einschließungsmilieus setzt. Erfolge dieser Art belegen u.U. die Ansicht von Theoretikern wie Klaus Lüderssen (1984) und Gilles Deleuze (1990), dass sich die westlichen Gesellschaften bereits dem Ende der Epoche der Freiheitsstrafe nähern.

  • Quaccheri
  • William Penn was the first great Quaker prison reformer. In his 'Great Experiment' in Pennsylvania in the 1680s he abolished capital punishment for all crimes ...
  • Ruth Morris
  • Michel Foucault
  • Thomas Mathiesen
  • Thomas (Herman) Bianchi
  • Louk Hulsman

Resultati

Debattiti

The Prison: Success or Failure?

Thomas Mathiesen: "positive" vs. "negative" reforms

È possibile un mondo senza prigione?

Foucault

Lei osserva nelle ultime pagine di Sorvegliare e punire che la tecnica disciplinare è diventata una delle funzioni principali della nostra società. Il relativo potere raggiunge la sua più alta intensità nell'istituzione penitenziaria. Lei dice d'altra parte che il carcere non è necessariamente indispensabile a una società come la nostra poiché perde buona parte della sua ragione d'essere tra i sempre più numerosi dispositivi di normalizzazione. E quindi concepibile una società senza carcere? Questa utopia comincia a essere presa sul serio da alcuni criminologi. Per esempio, Louk Hulsman, professore di diritto penale all'università di Rotterdam, difende la teoria dell'abolizione del sistema penale. Il ragionamento su cui si basa questa teoria si ricollega ad alcune delle sue analisi: il sistema penale crea il delinquente, si rivela fondamentalmente incapace di realizzare le finalità sociali che è supposta perseguire, qualsiasi riforma è illusoria. L'unica soluzione coerente è la sua abolizione. Hulsman osserva che la maggior parte dei reati sfugge al sistema penale senza mettere in pericolo la società. Propone allora di decriminalizzare sistematicamente la maggior parte degli atti e dei comportamenti che la legge considera crimini o reati, e di sostituire al concetto di crimine quello di «situazione-problema». Invece di punire e di stigmatizzare, tentare di regolare i conflitti con delle procedure di arbitrariato, di conciliazione non giudiziaria, considerare le infrazioni alla stessa stregua dei rischi sociali, continuando a ritenere essenziale il risarcimento della parte lesa. L'intervento dell'apparato giudiziario verrebbe riservato ai casi gravi o, in ultima istanza, nel caso d'insuccesso dei tentativi di conciliazione e delle soluzioni di diritti civili. La teoria di Hulsman è di quelle che presuppongono una rivoluzione culturale. Che cosa pensa di questa idea abolizionista riassunta schematicamente?

Credo che siano molte cose interessanti nella tesi di Hulsman, non fosse altro per la sfida che pone alla questione del fondamento del diritto di punire dicendo che non c'è più niente da punire. Trovo anche interessante il fatto che pone la questione del fondamento della punizione tenendo conto nello stesso tempo dei mezzi attraverso i quali si risponde a un qualcosa che è considerato come infrazione. In altre parole, la questione dei mezzi non è semplicemente una conseguenza del modo in cui si sarebbe potuto porre il problema del fondamento del diritto di punire, ma a suo modo di vedere, la riflessione sul fondamento del diritto di punire e il modo di reagire a un infrazione devono costituire un tutt'uno. Tutto ciò mi sembra molto stimolante, molto importante. Forse non ho una conoscenza approfondita della sua opera, ma mi sorgono alcuni dubbi. La nozione di «situazione-problema» non conduce a una psicologizzazione sia dell'atto che della reazione? Una pratica come questa non rischia, anche se non è ciò che spera Hulsman, di condurre ad una specie di dissociazione tra le reazioni sociali, collettive, istituzionali del crimine da una parte che verrà considerato un incidente e dovrà essere regolato alla stessa stregua, e dall'altra, per quanto riguarda il delinquente, a una iper-psicologizzazione che lo rende oggetto di interventi psichiatrici o medici, con dei fini terapeutici?

Ma questa concezione del crimine non porta anche all'abolizione delle nozioni di responsabilità e di colpevolezza? Dato che nelle nostre società il male esiste, la coscienza della colpevolezza (che secondo Paul Ricoeur è nata presso i greci) non adempie una funzione sociale necessaria? E possibile concepire una società completamente esonerata da ogni senso di colpevolezza?

Il problema non è sapere se una società può funzionare senza colpevolezza, il problema è piuttosto stabilire se la società può far funzionare la consapevolezza come principio organizzatore e fondatore di un diritto. Ricoeur fa benissimo a porre il problema della coscienza morale, e lo pone da filosofo o da storico della filosofia. È legittimo dire che la colpevolezza esiste, che esiste da una certa epoca in poi. Si può discutere se l'origine sia greca o meno. Ad ogni modo esiste e non vedo come una società come la nostra, ancora così fortemente radicata in una tradizione che è anche quella greca potrebbe esonerarsi dal senso di colpevolezza. Per molto tempo si è creduto di poter direttamente articolare un sistema di diritto e una istituzione giudiziaria su una nozione come quella della colpevolezza. Per noi invece la questione è aperta.
Credo in effetti che il diritto penale faccia parte del gioco sociale in una società come la nostra, e che non debba mascherarlo. Ciò significa che gli individui che fanno parte di questa società devono riconoscersi come soggetti di diritto che in quanto tali possono essere puniti e castigati se infrangono qualche regola. Non vi è in questo, credo, niente di scandaloso. Ma è dovere della società fare in modo che gli individui possano effettivamente riconoscersi come soggetti di diritto. Cosa che è difficile quando il sistema penale in vigore è arcaico, arbitrario, inadeguato ai problemi reali che si pongono a una società.
Consideriamo per esempio il solo campo dei reati economici. Il lavoro che si deve realmente fare a priori non consiste nell'iniettare sempre più medicina o psichiatria per modulare questo sistema e renderlo più accettabile. Bisogna ripensare il sistema penale in sé. Non auspico con questo un ritorno alla severità del codice penale del 1810. Auspico invece un ritorno all'idea seria di un diritto penale che definisca chiaramente ciò che in una società come la nostra può essere considerato passibile di punizione o meno, persino un ritorno a un sistema che definisca le regole del gioco sociale. Diffido di coloro che vogliono tornare al sistema del 1810 con il pretesto che la medicina e la psichiatria fanno perdere il senso della giustizia penale. Ma diffido anche di coloro che pur sistemandolo, migliorandolo e attenuandolo con delle modulazioni psichiatriche e psicologiche, in fondo l'accettano.

The Society of Control: a society without prisons?

Weblinks und Literatur

  • Mathiesen, Thomas (1974) The Politics of Abolition. London.

Voci correlate